a cura di Florinda Barbuto
C’è un tema che è sempre di grande attualità nell’ambito dell’associazionismo e del volontariato: la motivazione.
La domanda, quella più importante che affanna ricercatori, presidenti e coordinatori è: qual è la motivazione dei nostri soci e volontari?
Molte altre sono le domande correlate come ad esempio:
Le associazioni di volontariato o, più in generale, non lucrative fondano la loro struttura e funzionamento sul contributo spontaneo e gratuito dei loro soci. Nonostante non sia previsto compenso o penale per l’adempimento o meno di tale contributo, è necessario che i soci rispettino il loro ruolo e portino avanti con costanza e serietà le attività associative: è da questo impegno che dipende la vita dall’associazione stessa.
Per capire la delicatezza di questa tematica occorre conoscere e riflettere sulla basilare distinzione tra motivazione intrinseca e motivazione estrinseca. La differenza tra le due sta nella collocazione della spinta motivazionale che, nel primo caso, è interna all’individuo, nel secondo, è esterna. Per semplificare ancora di più il discorso: si parla di motivazione estrinseca quando quello che ci spinge a fare qualcosa è l’aspettativa di una “ricompensa” (ad esempio, ricevere una somma di denaro) oppure l’evitamento di una “punizione” (ad esempio, esser multati); si parla, invece, di motivazione intrinseca quando la scelta di fare o non fare, impegnarsi o meno, è puramente interiore (ad esempio, il senso di soddisfazione, l’appagamento personale, il piacere di fare la cosa in sé).
Il discorso è davvero complesso, molto più di quello che si potrebbe pensare. Vediamo qualche sfumatura in più, seppur in modo sintetico e sicuramente non esaustivo.
Un datore di lavoro può ottenere che i suoi dipendenti rispettino gli incarichi lavorativi puntando su una motivazione estrinseca: lo stipendio e l’evitamento del licenziamento. È noto, tuttavia, che questi fattori possono non essere sufficienti a motivare realmente i dipendenti a fare bene, oltre che a fare il proprio lavoro. Per cui puntare anche alla motivazione intrinseca, ad esempio gratificare i dipendenti con riconoscimenti e premi, farli sentire apprezzati, coinvolgerli nei processi aziendali, proporre attività adeguate alle loro competenze e interessi, consente di moltiplicare il loro impegno e dedizione (oltre che soddisfazione!).
Nel mondo dell’associazionismo non è possibile puntare sulle motivazioni estrinseche: non sono contemplabili compensi o punizioni. Diviene allora fondamentale comprendere e tenere viva la motivazione intrinseca. Facile a dirsi. Un’impresa titanica da realizzare.
Le motivazioni alla base dell’associazionismo possono essere varie. Alcune sono più strettamente “altruistiche” e “centrate sull’altro” come il desiderio di sentirsi utile e di aiutare gli altri, la voglia di migliorare l’ambiente in cui si vive, la volontà di sostenere un’idea o una causa. Altre sono più “egoistiche” e “centrate su di sé”, come ad esempio accrescere la propria autostima, il proprio senso di autoefficacia e senso di utilità, il bisogno di dare un significato a un evento traumatico che si è vissuto, il bisogno di occupare il proprio tempo libero, il desiderio di conoscere persone e stringere amicizie, intessere una rete di relazioni e contatti utili anche per la propria professione, aumentare la propria visibilità e riconoscimento sociale e/o professionale.
È bene riconoscere che non esistono motivazioni che possono essere reputate in assoluto giuste o sbagliate. Che siano più “altruistiche” o “egoistiche” l’aspetto centrale è che la persona mette tale energia motivazionale a disposizione degli altri, rendendosi utile.
Il problema sorge quando il volontario non è consapevole di tale motivazione, per cui potrebbe sottovalutarne l’incidenza e l’effetto che ha sul proprio impegno: sapere perché facciamo le cose è essenziale per capire come facciamo le cose.
Altro aspetto fondamentale è che tali motivazioni possono essere molto vivide all’inizio e affievolirsi nel tempo, riducendo gradualmente l’impegno dei soci.
Come sempre, non esistono formule magiche, allo stesso tempo può essere molto utile prevedere alcuni accorgimenti.
In primo luogo è sempre fondamentale ascoltare i nuovi associati per comprendere e ancor più aiutarli a comprendere le loro reali motivazioni.
È necessario, inoltre, considerare che l’entusiasmo iniziale non può durare per sempre: è bene, dunque, dosare le energie nella fase iniziale e essere pronti a far ricorso ad un impegno più consapevole, razionale e “altruistico” quando le motivazioni intrinseche più emotive ed “egoistiche” cominciano a perdere la loro intensità.
Altro ingrediente fondamentale è trovare il giusto equilibro nell’assegnare gli incarichi: da una parte è importante che il volontario si assuma con responsabilità l’impegno di dare un contributo fattivo; dall’altra, è altrettanto importante ricordare che si tratta pur sempre di un’attività non retribuita alla quale si dedica per lo più il proprio tempo libero per cui la persona non può essere gravata in modo eccessivo dalle incombenze associative.
Quanto detto finora vale per tutte le associazioni non lucrative, come ad esempio quelle di volontariato o culturali, nonché per quelle costituite da professionisti.
In questo ultimo caso è da riconoscere sicuramente una peculiarità che ha una forte incidenza sulla sfera motivazionale.
Alcune delle motivazioni principali che spingono i professionisti a riunirsi in un’associazione o ad aderire ad associazioni esistenti è il desiderio di fare rete, il bisogno di avere supporto nell’avvio della propria attività, la necessità di farsi conoscere e di promuoversi, l’importanza di avere un contesto di scambio e condivisione.
Altre motivazioni possono essere connesse al prestigio che può derivare dall’appartenenza a quella particolare associazione, a vantaggi diretti per la propria carriera, all’opportunità di rendere più incisiva la propria presenza nella comunità scientifica professionale presentandosi in gruppo, possibilmente numeroso.
Inizio qui una mia riflessione più personale sull’argomento. Quando ho iniziato a studiare psicologia c’è stato un incontro decisivo che ha influenzato tutte le mie successive scelte professionali: quello con la Psicologia di Comunità.
Dopo la lettura di tanti testi che parlavano di singole persone, del loro mondo interiore, delle difficoltà che la persona può avere nelle diverse sfere della vita, ampliando al più l’osservazione ai piccoli gruppi (la famiglia o il gruppo di lavoro ad esempio) di cui può fa parte, finalmente scopro un approccio completamente diverso che guarda sì al singolo, ma anche ai gruppi in cui questo è inserito e, andando oltre, alle comunità, sino alla comunità globale di cui questo fa parte, il tutto in una modalità integrata.
Torniamo al presente. In questi ultimi giorni ho messo in successione alcune delle notizie che circolavano in rete. Ecco alcuni dei titoli:
Mamme che si accaniscono contro i figli fino ad ucciderli, episodi di violenza domestica di una brutalità inumana, maestre ed educatrici che umiliano e maltrattano i bambini che vengono loro affidati sono solo una parte delle notizie che ormai fanno parte del nostro quotidiano. Purtroppo.
Cosa accomuna queste notizie? Sono tutte la manifestazione del fallimento della nostra società. Una società che non è in grado di proteggere i propri cuccioli, in cui la sofferenza, i maltrattamenti, le ingiustizie passano inosservate e nessuno si assume la responsabilità della propria inerzia. E questa, ovviamente, è solo la punta dell'iceberg di una quantità infinita di problematiche sociali che affliggono le nostre società.
Che c’entra tutto questo con la motivazione? Ritorniamo alle associazioni dei professionisti. Oltre a tutte le motivazioni di “utilità personale” credo sia un dovere etico e umano per chi ha gli strumenti per fare la differenza, impegnarsi per sovvertire questo trend in cui il fallimento umano e sociale è in una crescita esponenziale da far venire i brividi.
E in particolare mi rivolto ai colleghi psicologi o professionisti della relazione d’aiuto. Che senso ha dedicare il nostro tempo e la nostra professionalità per aiutare le persone a risolvere le proprie difficoltà (opportunità di cui ovviamente mi sento ampiamente onorata) se poi ignoriamo la nostra società che va in frantumi?
Per non parlare dell’importanza di investire parte del nostro tempo per diffondere la cultura psicologica nella nostra società, di unire le nostre forze per pensare non solo alla nostra agenda personale ma anche alla nostra categoria professionale, dell’importanza di dedicare parte del nostro tempo a contesti che potrebbero arricchirsi del nostro contributo, della bellezza di continuare a dare proprio laddove finora abbiamo ricevuto.
Insomma, amici e colleghi professionisti, forse è arrivato il momento di riflettere su come investiamo il nostro tempo, su quali sono i nostri valori, e del senso che vogliamo dare alla nostra vita personale e professionale e dei “talenti” che abbiamo ricevuto.
E non è un caso che la "casa" in cui ho scelto di investire il mio tempo è l'ASPIC: Associazione per lo Sviluppo Psicologico dell'Individuo e della Comunità.
Concludo con alcune domande che è sempre bene tener presenti quando maneggiamo la nostra agenda:
Per chi volesse approfondire tale tematica ecco alcuni testi in materia;
Pubblicato il 01/02/2019 alle ore 21:30
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